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Per la serie non è tutto oro quello che luccica, dietro allo scintillio delle passerelle delle grandi maison di moda, a volte si celano realtà decisamente meno sfavillanti che gettano pesanti ombre sul modo del fashion-system. In particolare una delle realtà poco conosciute e di cui sino ad ora si è poco parlato, evitando di creare imbarazzo tra chi è ai vertici del settore, è la problematica legata al caporalato, preservando così l’immagine patinata e glamour che deve avere la moda. E’ indubbio che di affascinante lo sfruttamento della mano d’opera, spesso si tratta di migranti, nascosti in laboratori al limite della legalità, collocati in piena Europa e anche in Italia, non ha proprio nulla. Si dava per scontato ed era noto che questi metodi venissero utilizzati in aree geografiche dell’Asia ma non della nostra penisola e soprattutto eravamo abituati a pensare che il fenomeno del caporalato riguardasse il settore agricolo, non certo marchi del lusso di fama mondiale che in Italia producono capi e accessori.
Il fenomeno del caporalato in questo settore, costituisce una sorta di schiavitù moderna, dove, come detto poc’anzi, migranti bisognosi di lavoro, vengono impiegati a ritmi serrati, con salari minimi e condizioni al limite dello sfruttamento. Il comparto della moda è il motore di una filiera produttiva che spesso punta al profitto ad ogni costo, ignorando diritti, sicurezza e dignità dei lavoratori. Il caporalato nell’ambito del fashion system è un fenomeno noto già da tempo ma sino ad ora mai approfondito, complici meccanismi di appalti poco trasparenti e forte della domanda crescente di capi a basso costo. Ci si chiede, quindi, quale sia il reale prezzo ad esempio di un capo “Made in Italy” e su chi ricada la responsabilità di questo mondo sommerso, sui brands, sui fornitori o sui consumatori?


A seguito delle inchieste della Procura di Milano sulla filiera della moda, ed in particolare per quanto riguarda Manufactures Dior srl, società di borse e pelletteria di alta moda, che ha come socio unico Christian Dior Italia srl, si è scoperto, come se già non si sapesse, che il prezzo di listino di una borsa in vendita in boutique a 2.600 euro, viene realizzata in un opificio cinese, dove la lavorazione avviene in condizioni di sfruttamento ed in presenza di gravi violazioni in materia di sicurezza sul luogo di lavoro, al prezzo di costo di 53 euro. Non è soltanto la maison Dior ad essere imputata, metodi di produzione simili, hanno fatto scattare indagini anche a carico di Alviero Martini, Armani e Valentino. A termine dell’istruttoria dell’Antitrust, avviata a luglio 2024, contro la società del marchio Christian Dior Couture insieme a Christian Dior Italia e Manifactures Italia, facenti capo a LVMH, si impegnerà a sostenere con 2 milioni di euro, nell’arco di cinque anni, iniziative per “identificare le vittime di sfruttamento lavorativo e accompagnarle in percorsi di formazione, assistenza ed inclusione socio-lavorativa”.
Sono state richieste poi: “modifiche alle dichiarazioni etiche e di responsabilità sociale e nuove procedure per rafforzare il processo di selezione e controllo dei fornitori; attività di formazione interna in materia di tutela dei consumatori per i dipendenti che si occupano di marketing e comunicazione, oltre alle attività di formazione esterna, rivolta a fornitori e subfornitori, in materia di diritto del lavoro e sui principi etici previsti dal Codice di Condotta dei Fornitori, adottato dalla società del gruppo Dior”.


A seguito di queste inchieste si è reso necessario istituire un protocollo anti-caporalato, avvalendosi di strumenti per garantire la legalità di ogni singolo step del processo produttivo del mondo della moda. Il protocollo anti-caporalato ha come obbiettivo quello di prevedere forme di sfruttamento, evasione fiscale e contributiva, migliorare l’impatto sui lavoratori e sull’ambiente. Il documento prevede una “piattaforma digitale di filiera”, rivolta alle imprese di settore, al fine di raccogliere informazioni in merito alla mano d’opera impiegata, sulle strutture aziendali e sulle fasi di produzione. Dal canto loro i brand potranno consultare una “ green list” che includerà un elenco di aziende inscritte alla piattaforma e quindi con una filiera trasparente. Prevedendo, per chi decide di iscriversi alla piattaforma, un attestato di trasparenza nel settore, con accesso ad incentivi previsti dalla regione Lombardia. E’ evidente che, questo accordo definito su base territoriale, avrebbe la necessità di essere esteso anche a livello nazionale, coinvolgente tutte le imprese che hanno dislocato a livello nazionale i loro laboratori di produzione. Il caporalato nella moda rappresenta una delle contraddizioni più gravi e dannose per un settore associato al lusso, all’estetica e all’innovazione. Affrontare questo problema significa, ripensare e controllare in modo più capillare la filiera produttiva, promuovendo trasparenza e responsabilità sociale. L’impegno deve essere collettivo, coinvolgendo istituzioni, imprese e consumatori, contribuendo così, a rendere non solo bella esteticamente la moda ma anche dal punto di vista etico e sociale.