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TUTTI PAZZI PER LA MODA O TUTTI IMPAZZITI NELLA MODA?
Marzo 18, 2025LA MODA E’ DEMOCRATICA, LO DEVE ESSERE A TUTTI I COSTI? IL FAST-FASHION L’HA RESA TALE O E’ SOLO UN’ILLUSIONE?

Vi risponderò come Gianni Versace rispose a Maurizio Costanzo, durante un’intervista nel gennaio del 1980: “ Un abito d’autore, deve costare quanto un quadro. Dopo di che, come si copiano i quadri, si copiano i vestiti”.
Se l’essenza della moda è l’esclusività come può essere democratica e inclusiva? Forse il fascino del lusso in generale è insito proprio nei suoi paradossi. L’essere per pochi, fa si che il fascino ed il desiderio aumenti. Il bello costa ma tutti vogliamo averne almeno un pò nella vita. La moda dei brands di lusso, nel passato come oggi, rimane per molti inaccessibile, l’accesso è determinato ovviamente dal costo. Di conseguenza sarebbe corretto dire che la democratizzazione della moda è legata al prezzo? Forse si, ma la moda deve essere democratica a tutti i costi? Sarebbe meglio, forse, parlare di inclusività. Oggi le catene fast-fashion sono la scelta e la via per una moda inclusiva, i prezzi sono bassi, si avvalgono di una distribuzione capillare, l’assortimento è vario e spesso le collaborazioni con brand famosi, ormai sdoganate da tempo, rendono sempre più appetibile il fast-fashion, decretandone l’aumento negli ultimi anni ed il successo sul mercato. Chi non si può permettere di spendere cifre da capogiro nei negozi griffati, può comunque vantare di avere nel proprio guardaroba capi e accessori di designers famosi e costosi, proprio grazie a collaborazioni tra questi e le grandi catene del fast-fashion.
Chi ruppe il ghiaccio in questo senso furono Karl Lagerfeld e H&m, nel 2004, dando vita a due correnti di pensiero: chi sosteneva fosse la fine della moda delle grandi maison e chi invece, intuì immediatamente sarebbe stato l’inizio di un modo diverso e inclusivo di fare moda. In effetti con il passare degli anni le partnership da occasionali sono diventate sempre più frequenti, basti pensare alle collaborazioni di Mango con Boglioli, Uniqlo con JW Anderson o Inés de la Fressange, Zara con Stefano Pilati e H&m addirittura celebra i venti anni di collaborazioni con guest designers, annunciando per l’autunno 2025 una capsule con Glenn Martens. Non dimentichiamoci che nel 2010 anche Lanvin, poi Marni, Giambattista Valli e nel 2021 Rocha hanno fatto sognare tutte le fashion victims, sperando di acquistare un capo firmato ad un costo più che accessibile.
Ecco quindi che la moda da passerella si concede alla massa , gli store incutono meno timore di uno show-room , i prezzi sono decisamente più bassi e si filtrano i dettagli più stravaganti, rendendo tutto più a portata del quotidiano e perché no, tutto più stereotipato. Insomma, anche qui niente di nuovo, i grandi magazzini di una volta, davano la possibilità di acquistare abiti copiati e riprodotti di grandi stilisti a poco più di 40 mila lire. Negli anni ’80 la via alla moda democratica ed accessibile passava da lì, oggi dal fast-fashion ma negli ultimi anni, qualcosa sta cambiando.
Le copie e la semplificazione non sono però le uniche vie per rendere la moda democratica, se proprio lo si vuole. Si può percorrere la strada del second-hand o del vintage, che seppur appartenenti alla stessa famiglia sono due cose diverse. Negli anni ’80, per quanto gli abiti potessero essere di lusso, se usati, ci facevano storcere il naso, erano vecchi, sapevano di stantio e pochi si sarebbero sognati di indossarli. Il vintage era appannaggio di chi voleva risultare alternativo, di chi andava controcorrente e fondamentalmente non aveva soldi da spendere. Da allora un pò di acqua sotto i ponti è passata e il vintage è considerata un’ottima alternativa al fast-faschion, convince gli appassionati di moda, gli ambientalisti e anche gli stylist, insomma mette tutti d’accordo, erigendosi a stendardo della moda democratica. Sarà poi vero? Si, può essere, a meno che non si parli di vintage di lusso, allora le cose cambiano, abiti ed accessori raggiungono prezzi accessibili a pochi e torniamo punto a capo. Quindi ci si domanda di nuovo: “L’unica forma di moda democratica è quella proposta dal fast-fashion?”. La speranza è l’ultima morire e cercando, a volte si trova. In realtà, si può parlare di democratizzazione della moda, pensando ad abiti sartoriali, dove si pone l’attenzione sulla scelta dei materiali e sulla realizzazione dei capi. Mi riferisco al brand C&A, un marchio olandese, presente ormai in tutta Europa, con alle spalle una tradizione famigliare nel settore tessile dal 1841 che può considerarsi un esempio imprenditoriale di moda per tutti e di qualità. Sarà proprio C&A, nel 1965, ad anticipare la moda delle collaborazioni con maison di haute couture , ottenendo il permesso di copiare alcuni modelli di Givenchy e Lanvin, pagandone i diritti, ovviamente. Non solo, qualche anno più tardi, aprirà la strada alle collaborazioni con le modelle più richieste dell’epoca, come ad esempio Twiggy. Lesley Hornby, emblema della Swinging London, disegnerà un’intera collezione per C&A, promuovendola sulle riviste e negli store. Anche Yves Saint Laurent, nel 1966, una volta lasciate la maison Christian Dior, crea un marchio accessibile ad una clientela giovane, con un budget ridotto, non certo in grado di acquistare abiti di haute couture. Nasce il prêt-à-porter che democratizza la moda. Nasce Yves Saint Laurent Rive Gauche, un marchio moderno e per l’epoca unico.
Uno dei paladini della moda democratica sarà Elio Fiorucci, portando lo stile e la creatività a portata di tutti, in un’epoca in cui la moda era riservata a pochi. Le sue creazioni colorate, accessibile, ispirate allo street style, infrangono lo stereotipo della moda per l’élite. Nei suoi negozi chiunque poteva entrare, sentendosi parte di un mondo inclusivo, le sue collaborazioni con artisti underground, hanno reso la moda una forma di espressione personale, senza gravare sul prezzo o l’etichetta. La moda, per Fiorucci, doveva essere accessibile a tutti, una forma di libertà e sperimentazione, in una parola democratica.