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E’ la notte del 10 febbraio 2010, quando il mondo della moda e non solo, viene sconvolto dalla morte di Lee Alexander McQueen, la data ufficiale del decesso viene fissata l’11 febbraio. Riflettendo, mi chiedo quale differenza faccia, alla fine quello che pesa è l’assenza che diventa immutabile, paradossalmente può diventare una sorta di eternità al contrario. La scomparsa di McQueen, ha preso forma con una serie di date successive alla morte, una collezione postuma presentata il 9 marzo, le sue ceneri sparse in mare a giugno e il 5 ottobre 2010 una sfilata di McQueen senza di lui : ma partiamo dall’inizio!
Autunno 1996, gli ambienti della moda sono in fermento, si vocifera del passaggio da Ginvenchy a Dior di uno stilista di talento , che andrà a prendere il posto di John Galliano. Quello che ormai era conosciuto come “ l’enfant terrible” della moda, a 27 anni diventerà direttore artistico dal 1996 al 2001di una delle maison più classiche del panorama dell’Haute Couture quale Givenchy. Inizia la costruzione di quello che diventerà il mito Alexander McQueen.
Ben presto l’ambiente conservatore di Givenchy, in modo particolare la Haute Couture, inizia a stargli stretto, la sua creatività così come la sua indole ribelle, aprono la strada alla volontà di scioccare e provocare, decisamente in contrapposizione con la storia di Givenchy. L’animo irrequieto e tormentato è una caratteristica che lo contraddistingue sin da giovanissimo. Lascia la scuola a 16 anni e inizia a lavorare, imparando i segreti della sartoria, a vent’anni è al fianco di Koji Tatsumo, nel 1990 approda a Milano da Romeo Gigli, con il quale non avrà un rapporto idilliaco e così nel 1992 lascia l’Italia per iscriversi al master di Central Saint Martins Collage fo Art and Design. In occasine della sfilata di fine anno, la sua genialità verrà notata da Isabella Blow, assistente di Anna Wintour. Il resto è storia.


La provocazione e l’arte di scioccare il pubblico ad ogni sfilata, diventano il marchio di fabbrica di McQueen, le sue collezioni diventano la trasposizione delle sue paure e delle sue inquietudini, le sue tensioni psicologiche si trasformano in forza creativa. Le sue sfilate traducono il suo pensiero, ne è un esempio, l’utilizzo del tartan nella collezione Highland Rape, diventato simbolo della sottomissione della Scozia all’Inghilterra, i drappeggi, i tessuti intrecciati o intarsiati, le giacche con il corsetto, il bondage mai volgare ma raffinato, diventano simboli iconici del suo stile tra la fine degli anni ’90 inizio 2000.


Nel 2006 il tema del MET Gala è “Anglomania:Tradition and Transgression in British Fashion”, Alexander McQueen si presenta accompagnato da Sara Jessica Parker che indossa un abito tartan mono-spalla en pendant con il look dello stilista. Sarà la prima ed ultima volta che parteciperà al MET Gala, nel 2011 l’evento sarà dedicato a lui: Alexander McQueen: Savage Beauty.


Il concetto di bellezza di Lee, così era conosciuto negli ambienti della moda ( Lee Alexander McQeen), era molto simile al concetto che Rainer Maria Rilke, poeta e drammaturgo austriaco, aveva di bellezza: “La bellezza è la prima gradazione del terribile”. McQueen sembra riuscire a trovare la bellezza nella presunta bruttezza, la sua idea di bellezza era “terribile”, a suo dire bisognava: “Avere incubi frequenti, ricordarseli e saperli disegnare”. Nelle sue sfilate l’invisibile doveva superare il visibile, dovevano condividere con il pubblico il senso di paura, essere manifesto di ciò che non poteva essere rivelato. La sfida , l’impegno incessante, la fragilità psicologica, una mente inquieta e spietata. Un passato fatto di povertà, la sua famiglia apparteneva alla “ working class”, gli abusi subiti dal marito della sorella, la droga e la depressione, sono demoni che non gli lasciano via di scampo, ai quali si è aggiunta anche la scoperta di aver contratto l’HIV. Lee si suicida a 40 anni, pochi giorni dopo la morte dell’amata madre, la notte prima del suo funerale. Su di lui viene girato un documentario, i registi sono Peter Ettedgui e Ian Bonhôte, uscito nel 2018 nelle sale cinematografiche.
Guardando il documentario, ciò che colpisce è il cambiamento di McQeen a partire dagli inizi, giungendo sino alla fine della sua carriera; si ha l’impressione di essere difronte a due persone diverse, il successo, il denaro e la dipendenza da stupefacenti, hanno reso il suo equilibrio psichico, già minato dal passato, sempre più precario. Lavorava incessantemente, in modo instancabile, era solito fare prove sfinenti ed era dedito ad un lavoro di ricerca infinito, pretendeva che i suoi collaboratori dedicassero la loro vita al lavoro, esattamente come lui ed avessero un’estrema dedizione nei suoi confronti. Se qualcuno decideva di lasciarlo, perché non riusciva a sostenere quei ritmi incessanti, si sentiva tradito e abbandonato. In una delle ultime, direi, tragiche biografie di McQueen, intitolata “Blood Benearh The Skin” di Andrew Wilson, si racconta di una conversazione tra Lee e Sebastian Pons, ex collega, in occasione di un party, nel 2009, dato dal designer, nella sua villa di Maiorca. Lo stilista confida all’amico di volersi suicidare e di volerlo fare in pubblico, in occasione di quella che sarebbe stata la sua ultima sfilata. A quanto pare Lee aveva progettato di spararsi alla testa, difronte al pubblico, alla fine dello show. Le preoccupazioni di Pons, rimasero però inascoltate anche dallo staff del stesso McQueen, il quale, in realtà aveva già tentato il suicidio. La morte della cara amica IIsabelle Blow, nel 2007, con la quale instaurò una profonda amicizia, anche in questo caso si parlerà di suicidio e qualche anno dopo nel 2010 la morte della madre, lo lasceranno devastato, in preda ad una forte depressione. L’11 febbraio 2010, dopo aver assunto un cocktail di droga e farmaci, nella sua casa di Londra, L.A. McQueen, si suicida impiccandosi. Il momento dopo inizia la leggenda, grottesca, quasi mostruosa e forse distorta di quello che è diventato una icona gotica della moda. E’ il caso di dire che la leggenda ha preso il sopravvento sulla storia della vita di MecQueen, maestro del dramma, visionario nel trasformare ogni sua collezione in un pezzo di teatro. Impossibile dimenticare una delle sue sfilate più discusse e controverse: Horn of Plenty del 2009, dove le modelle ricordano bambole gonfiabili che sfilano tra cumuli di spazzatura.
Nel 2010 in occasione della collezione primavera estate, intitolata Plato’s Antlantis, Alexander McQueen manda in scena le Armadillo Shoes, sicuramente le scarpe più iconiche dello stilista, consacrandolo definitivamente come il designer più innovatore del suo tempo!!