“Fare bene le cose che ci piacciono: più del business ci interessano le idee in cui crediamo.” Miuccia Prada risponde così in un’intervista. La designer ha introdotto nel fashion system il concetto del “brutto”. La sua è una moda intellettuale, capace come nessun’altra di codificare il disordine estetico, caratteristico della contemporaneità.
La stilista proviene dalla “Milano bene”, ma prova sin dall’adolescenza il forte istinto di vivere a fianco della gente comune. Ex sessantottina, femminista, appassionata di mimo (si iscrive alla scuola del Piccolo Teatro), si laurea poi in Scienze Politiche. L’amore della sua vita è Patrizio Bertelli, marito e socio in affari.
Nel 1978 le viene affidata la guida della società di famiglia. La decisione di creare una linea di abbigliamento e l’invenzione del logo – un triangolo rovesciato ispirato alla chiusura dei bauli del nonno – lasciano il segno: borse e zaini diventano subito oggetti del desiderio.
La sua moda, all’inizio non molto compresa dalla stampa italiana, è stata invece molto amata da quella anglosassone e newyorchese. I calzini di lana indossati con scarpe aperte, i tessuti impalpabili portati sopra quelli pesanti scozzesi, le giacche a vento leggere elette a soprabito per la sera: questo stile fu osservato con un pizzico di sospetto.
In realtà, non curanti dei vincoli di stile precostituito, le creazioni dei marchi del Gruppo – Prada, Miu Miu, Church’s, Car Shoe e Marchesi 1824 – sono la risposta all’osservazione della società odierna.