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POLITICA DELLA MODA O MODA NELLA POLITICA?
Nell’immaginario collettivo la moda ha sempre rappresentato un mondo legato all’estetica, al lusso e a qualcosa di effimero. In realtà da sempre l’abito è un potente strumento di comunicazione, il modo in cui ci si veste, ha sempre svolto una funzione rappresentativa dell’uomo, della donna e del loro potere all’interno della comunità. Oggi più che mai, in un’epoca segnata da crisi, rivendicazioni di identità e tensioni sociali, la moda lancia chiari segnali, non è solo “cosa indossi” ma “ cosa dici indossandolo”. La prima a rendersi conto di quanto fosse importante curare l’aspetto della rappresentazione del potere, attraverso abiti e strumenti presenti nella culture dell’epoca, fu Elisabetta I.
Non solo pone attenzione sugli abiti che indossa, si rasa i capelli e opta per una parrucca, si dipinge il volto di bianco, non ha più nulla di umano, è il simbolo del potere. Inizia un percorso che porterà il dress-code ad essere anche strumento politico, di integrazione o differenziazione degli individui nella società. A partire dagli anni ’60 del Novecento, con i movimenti femminili, sino ad arrivare ai giorni nostri, la moda ha spesso accompagnato e supportato battaglie sociali. Pensiamo al tailleur pantalone di YSL, che è stato molto più di un capo di abbigliamento, è stato uno strumento di emancipazione femminile. Nel 1966, quando YSL presenta “Le smoking”, modifica completamente l’idea convenzionale di moda femminile e gli stereotipi sociali, in un’epoca in cui alle donne, in alcuni contesti, era ancora vietato indossare i pantaloni.
Allora ed ancora oggi, indossare un tailleur Saint Laurent, significa affermare la propria identità e il concetto di parità, diventa un atto politico, culturale e personale. Anche i jeans, diventano un simbolo di ribellione giovanile, così come la t-shirt diventa un manifesto ed è il caso della maglietta “We soul All be Feminist” di Dior. Maria Grazia Chiuri, infatti ha portato il femminismo nell’alta moda, riuscendo a far riconcigliare moda e politica.
La passerella diventa un luogo da cui fare dichiarazioni politiche, in particolare sociali, dando voce a temi legati ai diritti delle donne, l’identità e l’inclusività. La Chiuri non è stata la sola ad usare le sfilate come palcoscenico per le battaglie attiviste, Vivienne Westwood ha fatto della moda una vera e propria forma di protesta politica, contro il consumismo ed a sostegno dell’ambiente. Ogni sua sfilata diventa una dichiarazione politica. Pioniera del punk negli anni ’70, trasforma la sua visione anarchica, in un linguaggio estetico e attivista.
Dal sostegno a Julian Assange, alla lotta contro il cambiamento climatico, dalle critiche all monarchia britannica, agli appelli per una moda più etica. Gli abiti nel caso di Vivienne Westwood, diventano manifesti, un mix di sartoria, storia e slogan provocatori. E’ diventato celebre il suo motto: “ Buy less, Choose well, Make it Last”, anticipando il dibattito a venire, riguardo la sostenibilità della moda, ma non solo, nel 1994 sfila la sua collezione “On Liberty”, manifesto dell’indipendenza e sensualità femminile che riceverà non poche critiche. Il suo esempio viene seguito l’anno dopo, nel 1995, da Alexander McQueen, con la collezione Highland Rape”, con non pochi riferimenti allo scontro tra Inghilterra e Scozia e agli abusi subiti dalla sorella dello stilista per mano del marito.
Arriverà nel 1998, la sfilata SS di Hussein Chalayan, proponendo veli sempre più corti, sino a scoprire totalmente il corpo femminile. Denunciando il costante e continuo giudizio a cui il corpo della donna viene sottoposto.
Anche Demna Gvasalia, ex direttore artistico di Balenciaga, ha messo in scena show apocalittici, dove la crisi della società e la disumanizzazione sono state protagoniste. Molte sue collezioni hanno mandato in passerella modelli irriconoscibili, con i volti coperti, suggerendo di riflettere sui canoni estetici e sul concetto di identità. La visione di Demna è politica non perché schierata ma inquarto disturbante, mette a disagio, costringendo a porsi delle domande, la moda diventa una narrazione sul mondo.
La politica sulle passerelle si concretizza con la presenza, molti brands, rompono con l’omologazione delle passerelle tipica del passato, includendo nelle loro sfilate modelli trans e di etnie diverse. Ad esempio, il designer emergente Marco Ranbaldi, ha fatto sfilare attivisti LGBTQIA+, persone comuni e artisti indipendenti. Anche l’approccio della moda sta diventando politico, optare per una moda etica e sostenibile, il riuso e la slow fashion è una presa di posizione contro l’iperconsumismo e lo sfruttamento del lavoro.
Nello scorso Met Gala, galà annuale di raccolta fondi per il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di New York City, non è passato inosservato l’abito-manifesto della deputata americana Alexandria Ocasio-Cortez. Un abito bianco a sirena, sul quale spiccava un messaggio di color rosso bold: “Tax the rich”, realizzato da una designer immigrata di colore a capo del marchio Brother Vellies. Un chiaro monito politico!
E’ indubbio che la moda sia anche una questione di politica, così come tutto ciò che è fortemente connotato culturalmente. La moda serve a definirci e definire il nostro potere, diventa portavoce di messaggi scomodi e supporter di tematiche controverse. Il rapporto tra moda e politica si fa ancora più complesso quando si tratta di figure femminili, in modo particolare quando rivestono un ruolo ai vertici di un settore convenzionalmente maschile. Nasce così, a partirendarli anni ’80 il così detto “ power dressing”, che richiama a codici maschili, un esempio sono stati, proprio negli anni Ottanta, i completi di Giorgio Armani.
Si sceglie di far prevalere il rigore negli abiti delle donne ai vertici del potere e ancora oggi si segue questa tendenza, come se abiti troppo femminili potessero, forse, far passare in secondo piano gli ideali e le capacità di chi li indossa. Gli abiti sono la forma di auto-espressione più forte ed immediata.
Quando il fashion system e la politica si incontrano, o sarebbe meglio dire si scontrano, le relazioni sono sempre contrastanti, per alcuni le maison di moda e le celebrities, per la loro cassa di risonanza hanno il dovere di esprimersi su temi politici, per altri la moda non dovrebbe uscire dai propri confini, quelli di un mondo erroneamente ritenuto superficiale ed effimero, qualora decidesse di farlo sarebbe solo una questione di pubblicità e strategia di marketing. Che la moda di questi tempi volente o nolente, si debba occupare anche di politica? Il suo coinvolgimento, così come per ogni ambito creativo e produttivo, subisce influenze esterne e del proprio tempo, inoltre per ampliare e costruite una comunità deve ampliare la propria narrativa, facendo si che il marchio diventi un vero e proprio stile di vita. Sta al consumatore capire se alle spalle di tutto questo, c’è chi, a suo modo tenta di operare un cambiamento, perché la moda ha gli strumenti per scuotere le coscienze o si tratta esclusivamente di una strategia di marketing.