
LVMH VALUTA LA VENDITA DEL MARCHIO MARC JACOBS!
Luglio 31, 2025
MODA E INTELLIGENZA ARTIFICIALE: NUOVA RIVOLUZIONE DEL FASHION SYSTEM.
Agosto 20, 2025Miguel Adrover ha trasformato la moda in atto politico, tra estetica del dissenso e silenzi strategici.
Considerato un visionario, Miguel Adrover è sicuramente un rivoluzionario nel mondo della moda per il suo approccio anticonvenzionale e fuori dagli schemi. Ha fatto della moda un’arma politica e culturale, molto prima che i social diffondessero video di dissenso, trasformandoli in strategia di marketing. Le sue collezioni sono un manifesto di valori sociali, culturali e ambientali, propongono una moda concettuale e sovversiva. Nato a Maiorca, diventa una sorta di icona a New York, dove fu in grado di stupire con la sua capacità di decostruire il lusso, riproponendolo in modo sovversivo, sfidando il sistema del consumismo sfrenato della moda. Antesignano della moda sostenibile, Adrover, inserì l’upcycling nel proprio lavoro e l’uso di materiali riciclati in anticipo sui tempi. Il suo lavoro ha spesso preso posizione e incluso riferimenti a culture diverse, sfumandone i confini così come per le classi sociali e stili differenti. Un lavoro carico di riferimenti geopolitici, migrazioni e disuguaglianze, prendendo posizioni nette. In tempi in cui indossare una keffiah, può significare un endorsement silenzioso o una provocazione inconsapevole, questa veniva usata da Adrover in passerella, come simbolo di lotta anti-imperialista ben prima che diventasse “trendy” o che scatenasse polemiche da destra e sinistra. La moda per Adrover è stata un mezzo per criticare la globalizzazione e la colonizzazione culturale, oggi , in un momento in cui la neutralità è diventata una strategia di branding e si ha timore ad esporsi, Miguel Adrover diventa davvero essenziale?
															
															Qualche giorno fa lo stilista ha rifiutato una collaborazione con la cantante pop spagnola Rosalia, in quanto non schierata apertamente e pubblicamente a sostegno della Palestina. Adrover, avrebbe lavorato per la contante, qualora questa fosse pronta a fare “la cosa giusta”, ovvero contestare la politica del governo Israeliano e assumere una posizione pro-Gaza. Gesto di “coerenza sociale” e attivismo politico che ha fatto indubbiamente discutere, a differenza di molti che nel mondo della moda e non solo, flirtano con l’immaginario della protesta senza però toccarne mai il contenuto, Adrover manifesta apertamente la sua solidarietà con la Palestina, compiendo un gesto ancor più radicale: rifiutando di lavorare con chi non si schiera in modo netto con Gaza e la Palestina. La presa di posizione di Miguel Adrover è solo uno dei tanti episodi di una campagna, portata avanti principalmente dai social, per far pressione sul mondo della moda e delle celebrities, affinché si schierino a favore della Palestina e contro Israele.
															
															E’ lecito porsi una domanda, è giusto che gli stilisti siano schierati ed è giusto che ci sia una commistione tra moda e politica? Dove finisce la libertà di espressione e dove ha inizio il rischio di una semplificazione pericolosa? Negli ultimi anni, la moda ha smesso di essere solo una passerella di abiti e modelle, sempre più spesso le collezioni sono diventate un veicolo di denuncia, di identità e impegno politico, sicuramente tra i designer che più hanno incarnato questa tendenza c’è Miguel Adrover, inserendosi in un filone di proteste artistiche legate al conflitto israelo-palestinese ma non è l’unico. In tempi recenti, anche altri brand e creativi si sono pronunciati, con collezioni, dichiarazioni o boicottaggi legati al conflitto in Medio Oriente. Alcuni scelgono di sostenere la causa palestinese con simboli come la keffiah o con campagne di sensibilizzazione, altri denunciano l’occupazione, la violenza e le disuguaglianze con gesti più espliciti.Parliamo di libertà di espressione o di vera e propria presa di posizione ideologica? Indubbiamente il diritto alla libertà d’espressione è alla base di ogni atto creativo, la moda, così come l’arte e la musica, può (o deve?), confrontarsi con la realtà socio politica che la circonda. Quando un designer prende posizione, lo fa da cittadino, da individuo, in questo caso criticare le scelte politiche di un Paese, Israele o qualsiasi altro, rientra in un diritto legittimo, soprattutto se l’obbiettivo è difendere i diritti umani. Tuttavia, in alcuni casi, la questione è estremamente delicata, ed è proprio l’esempio di quanto sta accadendo oggi a Gaza. Le critiche al governo israeliano, da parte di personaggi che hanno una visibilità pubblica, soprattutto se non ben argomentate e fatte in modo superficiale, rischiano di sfociare in generalizzazioni banali, se non addirittura in derive antisemite.
															
															Esiste un limite sottile tra impegno sociale e spettacolarizzazione della sofferenza o ricerca di visibilità : un messaggio forte, privo di un’adeguata consapevolezza storica, può risultare superficiale o controproducente. Nel caso di Miguel Adrover, diamo a Cesare quel che è di Cesare, la sua visione del mondo è sempre stata parte integrante della sua arte. Non si tratta di una moda del momento, ma di una coerenza ideologica che ha attraversato tutta la sua carriera e quando tocca temi complessi, come il conflitto israelo-palestinese, lo fa come parte di una riflessione più ampia sul potere, la disuguaglianza e l’oppressione.Nonostante questo è giusto che la moda, o una parte di essa, si schieri contro Israele? Chi lavora nel mondo della moda deve per forza decidere da quale parte stare, non si può permettere di rimanere neutrale? La moda è una cassa di risonanza potente e proprio per questo è doveroso che ogni suo messaggio sia responsabile, ponderato e rispettoso.


